DIANA PINTALDI
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INTERVISTA A DIANA PINTALDI
IN OCCASIONE DELLA COLLETTIVA SITE SPECIFIC "A N I M A M U N D I " A CURA DI LAURA CATINI
SPAZIO HANGAR
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DI GIULIA PONTORIERO
Giulia Pontoriero: Nella tua pratica artistica parli di “dialogo trasformativo” che si esprime attraverso la natura del segno su supporti differenti, spaziando dalle mappe e le sue coordinate alla carta e al lenzuolo. Nella scelta di utilizzare il filo, il quale prosegue secondo tracciati o percorsi mai casuali, ho percepito un forte senso dello “stare” per “appartenere”, che risponde poi coerentemente anche al titolo della mostra, Anima Mundi. Parlando dunque di “connessione”, è come se nell’interpretare il significato di un punto o di un percorso da te cucito ad esempio nelle mappe, risiede nascosta la volontà di far emergere non tanto la presenza e il passaggio esistenziale individuale, quanto il prevalere di quello immaginario. È come se l’uomo fosse spinto nel seguire un percorso già scritto, ma che esso stesso sia l’unione di tanti tracciati immaginari…
Diana Pintaldi: Immaginando possiamo direzionare molteplici scenari di futuri potenziali. Quando scegliamo di proiettarci in uno di essi, l’agire può cominciare a fluire verso quella rotta, entriamo in connessione con quegli elementi del mondo che potrebbero renderlo reale. È incredibile come a volte questo meccanismo si instauri inconsapevolmente. Diventandone consci, potremmo ritrovarci in quella bellissima sensazione di congiunzione cosmica nell'essere al posto giusto al momento giusto. Il più delle volte quello che accade è addirittura superiore alla nostra immaginazione, proprio perché ci intersechiamo non solo con i nostri immaginari ma anche con gli immaginari degli altri, le loro proiezioni e azioni conseguenti. L’unità, e la separazione individuale, è solo apparenza, tutto è in osmosi con il tutto e in continuo scambio. Se pensiamo che la struttura di tutte le cose è costituita principalmente dal vuoto, da legami e da energie, potremmo renderci conto di come il mondo sia un continuum senza confini, un altro dei motivi per cui è importante per me l’estetica del codice Morse come linea permeabile.
Per “Essere nel tempo e nello spazio infinito”, devo saper navigare in un divenire inevitabile dove l’azione è necessaria all’evoluzione … certe trasformazioni sembreranno quindi essere già state scritte, perché dovute a un flusso di connessioni pre-orientate.
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G.P: La sincronicità junghiana nella sua definizione, stabilisce l’esistenza di un legame tra due eventi manifestanti parallelamente fra loro nel medesimo contesto. In questa opera “Essere nel tempo e nello spazio infinito”, stavolta, scegli come supporto un lenzuolo, dove il segno attraverso il filo si distende e dona all’occhio e alla percezione visiva un andamento ipnotico. Se già nelle tue opere precedenti, abbandoni la dimensione fisica di spazio/tempo attraverso la connessione fra filo, atto temporale, e supporto, spazio fisico, nell’utilizzare, invece, il lenzuolo, elemento carico di significati allegorici scegli di passare dalla dimensione reale a quella onirica. Il sonno, di per sé e per molti, è la fase più prossima allo stato di morte, poiché il corpo perde parzialmente coscienza fisica e ciò che noi chiamo sogno più che definirlo come parte della sfera dell’inconscio, mi piacerebbe ricollegarlo al concetto di proiezione visiva, concetto molto vicino alla tua pratica. Nel passaggio, infatti, fra veglia e sonno le immagini sembrano essere un prolungamento del nostro atto pensante privato di quello corporeo agente. Il filo, dunque, in questa opera, potrebbe essere interpretato come quella traccia rimanente di quella stessa sfera cognitiva privata del suo agire motorio?
D.P: Potrebbe essere la proiezione di un sogno lucido, quel momento in cui siamo abbandonati ma ancora guidiamo il sogno, esploriamo e modelliamo, consci di ciò che è reale e di ciò che non lo è. Il filo riflette quella ricerca di corrispondenza tra il fisico e il metafisico, assumendo le sembianze del moto dell’Essere a partire dal segno di un punto cucito.
G.P: È interessante come scegli di tradurre attraverso il codice Morse l’ultima delle quattro azioni della tua pratica: attraversare, collegare, proiettare e interpretare. Il codice Morse nella sua genesi e origine, è un tipo di linguaggio che, in un suo tentativo di traduzione, prevede anche l’apprendimento di un’alfabetizzazione differente rispetto al linguaggio scritto e parlato comune. Nella tua pratica è presente anche la volontà di cercare un’interconnessione fra ciò che è visibile e l’Oltre: il filo cerca di riportare alla luce quello che si tende a non vedere. La scelta di utilizzare un linguaggio che necessita di essere appreso e codificato, può però esprimere anche la potenzialità di non voler disvelare totalmente la sua essenza ma mantenerne la sua misticità?
D.P: Il percorso del filo, come il percorso della vita è qualcosa di misterioso, dove solo procedendo e esplorando si trova la chiave di lettura per comprendere il senso di ogni passo. Mostrando il retro dell'opera cerco in realtà di svelare quei processi che hanno generato la manifestazione del fronte. Collegato all’altro, ogni punto cucito assume un nuovo significato. Allo stesso modo, ogni atto è un punto da collegare fino all’ottenimento di un disegno che sembra essere altro ma che li contiene tutti. Non è importante conoscere il codice a priori, ma lo è accorgersi che Segno e Significato si intersecano in un messaggio da scoprire, il processo infatti è ciclico e elicoidale, si ripete ma su livelli diversi. In maniera molto simile si comportano anche i palindromi con cui lavoro spesso: in essi il futuro è già presente e lo si scopre rileggendoli a ritroso, nel loro passato. Ce ne sono due in particolare a cui sono legata: “ed è fede” e “ante Eva” , quest’ultimo è precisamente un bifrasico, al contrario diventa “ave Etna”… Con tutto questo voglio dire che, con la mia pratica, sto probabilmente cercando, con fede, di raccogliere e sintetizzare, quelle leggi universali che regolano il Tutto dagli albori dei tempi.
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